Mi chiamo Sara, ho 25 anni e sono stata vittima di bullismo. Sì, bullismo… Avete capito bene. Questa è la prima volta dopo 15 anni che trovo la forza e il coraggio di scrivere e di ammettere ciò che mi è successo. Non so perché lo faccia. Non voglio di certo riaprire vecchie ferite, però, adesso è ciò di cui ho bisogno.
All’inizio questo termine mi faceva paura, ammetterlo significava dare forma ad una realtà in cui non volevo vivere, in cui mi sono ritrovata per caso o per colpa di qualcuno. Non ricordo il giorno preciso in cui sono stata catapultata in questo nuovo mondo ma ricordo quando ciò successe. Era il 2006 e mi accingevo a varcare la soglia di quel cancello così maestoso che mi avrebbe portato a frequentare la scuola media. Tutto è iniziato così in fretta, senza che me ne accorgessi. È bastata una parola, una frase sul mio aspetto fisico per far iniziare un calvario durato anni. “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!”. Non ricordo cosa ho provato nell’istante in cui mi sono state rivolte quelle parole ma posso immaginare quale sia stata la mia reazione: rimasi in silenzio così come ho fatto, stupidamente, per tanti anni. Ma questa stupidità, però, l’ho capita soltanto dopo, perché all’inizio pensavo che la colpa fosse davvero mia.
Tutti ritengono che l’adolescenza sia il periodo più bello della vita: è la fase in cui si instaurano i primi e veri rapporti d’amicizia, si organizzano i primi pigiama party, si esce a giocare e a fare shopping con gli altri… eppure, a me, tutto questo non è stato concesso. Mi svegliavo la mattina con l’ansia, con quell’ansia perenne di non sapere che cosa mi aspettasse una volta arrivata a scuola. Ci sono vari tipi di bullismo ed io sono stata vittima di violenza psicologica.
Non volevo sentire le loro parole… Odiavo il modo in cui mi descrivevano e come mi prendevano in giro per il mio aspetto… Ogni santo giorno non ho fatto altro che maledire il mio viso che per gli altri non era perfetto e che, per questo, andava deriso. “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!”. Quelle parole rimbombano ancora nella mia testa. “Sparisci!”, avrei voluto farlo. “Sparisci!”, ci ho provato. “Sparisci”, non riesco a farlo.
Le lame feriscono ma le parole uccidono perché hanno un peso e fanno male, tanto, caspita se non fanno male e all’epoca ero come un piccolo bruco che non riusciva a trovare il posto giusto per divenire crisalide.
Di questo ai miei genitori non ne ho mai parlato perché non volevo farli preoccupare, volevo cercare di risolvere io il problema o, forse, avevo paura che loro non potessero capirmi… Ho sbagliato a non dire nulla ma questo l’ho capito soltanto dopo, quando ho acquisito quella consapevolezza che, purtroppo, prima non avevo.
A scuola, ormai, non facevano altro che prendermi in giro ed io cercavo di diventare quanto più invisibile possibile ma con scarsi risultati. Allora decisi di praticare uno sport per cercare di sfogare tutta la mia ansia, la mia solitudine e i miei problemi in un’attività fisica. Purtroppo, per caso o per sfortuna a quella stessa squadra di pallavolo a cui decisi di iscrivermi si aggiunse anche il gruppetto che mi aveva preso di mira. L’inferno scolastico allargò i suoi confini e, uscendo dalle sue mura, mi raggiunse divorandomi sempre di più. Le risate negli spogliatoi, i sorrisi e gli sguardi che mi lanciavano ad ogni mio passo e gli occhi, quegli occhi che erano puntati sempre e solo su di me non mi facevano respirare. Non volevo più sentire nulla, eppure, quelle persone si erano impossessate non solo della mia vita ma anche dei miei sogni che ben presto divennero incubi. Ho sempre creduto nell’amicizia, in quella connessione magica tra due persone che condividono tutto tra di loro. In quelle relazioni basate sulla fiducia e sul rispetto reciproco. In quei rapporti in cui tu puoi essere te stessa senza sentirti giudicata per ogni piccola cosa e in cui vieni aiutata a superare i problemi che la vita ti pone sul tuo cammino. Ed è anche per questo che all’epoca scelsi un gioco di squadra ma io, purtroppo, divenni sempre più il gioco senza mai essere parte integrante della squadra. Ero abbastanza brava, mi piaceva come sport ma alla fine ci rinunciai perché le loro parole mi facevano troppo male, erano come pugnalate ed il mio corpo, ormai, non riusciva più a sopportarle. Il giorno prima della mia rinuncia fui convocata per giocare una partita amichevole con un’altra squadra. Non avevo una buona difesa, la ricezione era il mio punto debole. L’avversaria lo capii e cominciò a puntarmi. Ricevetti tantissime pallonate in faccia ma nessuno della “mia” squadra mi aiutò. “É un gioco di squadra”, pensai. “Mi aiuteranno. Perderanno se non lo fanno.” Mi sbagliavo. Erano disposte a tutto pur di vedermi soffrire e mentre pensavo a tutto questo l’avversaria schiacciava, di nuovo, quella palla nella mia direzione che, puntualmente, mi colpiva in faccia ma io riuscivo ad incassare i colpi nonostante il dolore. Schiacciava. Cadevo. Mi rialzavo. Lei di nuovo mirava. Ad ogni colpo subìto quella palla sembrava parlarmi: “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!”, non è vero. “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!”, perché mi fate questo? “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!”, perché siete così cattivi con me? Perché provate così tanto odio nei miei confronti? Mi ero rialzata dopo le tante cadute provocate da quella schiacciata micidiale. Eravamo arrivate al set-point. Incassai anche l’ultimo colpo. Quella volta caddi a terra e non mi rialzai più. Avevano ragione loro, forse questa è la verità: sono brutta, faccio schifo e devo sparire. Quelle cose non le pensavo veramente ma, alla fine, ho finito per crederci perché dovevo trovare una giustificazione a quel loro comportamento per sentirmi meglio, altrimenti se non ne avessi trovata alcuna, se non ci fosse stato nessun motivo per cui loro mi trattavano così, la mia mente sarebbe stata ancora di più afflitta perché non avrebbe trovato nulla a cui aggrapparsi.
Dopo la fine delle scuole medie mi iscrissi al liceo. Speravo di non incontrare nessuno della mia vecchia classe, però, non fu così. Quel piccolo gruppetto mi perseguitava. Eravamo non solo nello stesso istituto ma perfino nella stessa classe. Io non sapevo cosa fare. Si erano presi la mia vita e la mia passione, non volevo dargli più nulla. Volevo soltanto ritornare ad essere felice e la scuola superiore avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una nuova vita ma mi sbagliavo. Quelle offese gratuite continuarono, solo che questa volta a quel coro di voci se ne unirono altre. “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!” erano ormai parole che scandivano la mia vita scolastica. Ho sempre cercato, nonostante tutto, di aiutare gli altri ed essere sempre disponibile proprio perché sapevo cosa si provasse ad avere bisogno di una mano tesa quando intorno a te non c’è nessuno che decida di sostenerti. Ho aiutato gli altri sì, ma non sono riuscita ad aiutare, a quel tempo, me stessa.
La stanza dell’archivio della mia scuola è stata la mia salvezza. Mi rifugiavo sempre lì perché nessuno ci entrava mai. Era troppo polverosa e piena di scartoffie tanto da essere evitata. Lì mi rifugiavo quando volevo stare da sola, quando non sopportavo più le loro parole, quando avevo bisogno di piangere, quando volevo estraniarmi da quella realtà che non faceva altro che consumarmi un po’ alla volta. Alle scuole medie ero un bruco. Adesso quel bruco voleva trasformarsi in qualcos’altro. Nella stanza dell’archivio trovai un piccolo bigliettino nascosto tra vecchi registri in cui c’era scritto: “Un giorno tutto questo passerà. Non smettere mai di crederci!”. Quello per me fu un segnale: un’altra persona aveva passato quello che stavo vivendo io eppure continuava a credere in giorni migliori. Dovevo fare lo stesso. La stanza dell’archivio era il luogo perfetto in cui dovevo diventare crisalide. Certamente avevo paura, temevo di essere divorata una volta ultimato il mio bozzolo. Però decisi di avere coraggio. Completai il bozzolo e per la prima volta riuscì a sparire. Come un bruco spaventato nella sua crisalide dal cambiamento che potrebbe avvenire, io non feci altro che costruire ed innalzare muri intorno a me. Non volevo più essere avvicinata da nessuno. Ero sempre stata gentile con tutti ma nessuno mai lo era stato con me. Non me ne importava più di niente. Non credevo più nell’amicizia. Nulla aveva più senso, ridevo ma avevo smesso di sorridere per davvero, ormai vedevo il mondo solo in bianco e nero. Vivevo in solitudine e di solitudine e se questo, a volte, lo ritenevo un bene altre volte, invece, maledivo la mia situazione. Avrei voluto avere una vita come tutte le altre, essere come tutti gli altri ma, al mio fianco, non c’era nessuno. In due le paure fanno un po’ meno paura e la solitudine se condivisa diventa più leggera ma, accanto a me, c’era solo una sedia vuota con sopra un bigliettino in cui c’era scritto: “Sei brutta. Ma ti sei vista? Fai schifo. Sparisci!”.
Così passò tutto il periodo delle superiori e prima di iscrivermi all’università si verificò un episodio grazie al quale capii la mia debolezza. Si tenne a scuola l’assemblea di istituto per la nomina dei nuovi rappresentanti del liceo e durante quell’occasione vennero nominati Mister e Miss istituto. Si presentarono alla selezione delle ragazze molto carine ma, alla loro vista, una persona della mia stessa classe si girò verso di me e, sorridendomi, mi disse: “Se ci sono andate loro lì, puoi benissimo andarci anche tu!”. Io non dissi niente. Ecco la mia debolezza. Non riuscii a dire nulla. Sviai la conversazione dicendo di aver dimenticato il cellulare in aula e che sarei andata a prenderlo. Corsi verso la stanza dell’archivio in lacrime e ricordai una cosa: quel bigliettino che avevo trovato tempo prima nell’archivio ero stata io a scriverlo ma la mia mente lo aveva dimenticato. Ero io che cercavo di darmi forza da sola ma lo avevo dimenticato. Si dice che quando si vivono esperienze traumatiche la mente ti protegge adottando due soluzioni: o ti cancella definitivamente i ricordi tristi facendoli cadere nell’oblio o li mette da parte in una stanza chiusa a chiave che viene riaperta soltanto quando vivi un altro evento traumatico che sblocca quello che hai vissuto in precedenza. La mia mente mi stava proteggendo ed io non potevo fare a meno di esserne felice.
Mi iscrissi all’università. Finalmente ero riuscita a liberarmi di tutti. Ero così felice ed emozionata. Durante le vacanze estive mi concentrai molto su me stessa. Cercai di curare le mie ferite e di ricostruire tutte quelle parti di me andate in frantumi. Ho capito che il silenzio è stata la mia debolezza perché non parlandone con nessuno ho dovuto affrontare da sola tutti quei problemi ma, paradossalmente, quello stesso silenzio è stato la mia forza perché mi ha reso la persona che sono adesso e allora sono stata in grado di superare da sola quegli ostacoli. Naturalmente ogni persona è diversa, non tutti agiscono nello stesso modo dinanzi a situazioni analoghe. Io ho reagito così e sono stata fortunata a non essere sprofondata nell’oscurità. Ho capito che è questa la mia forza: avere la capacità di tenermi tutto dentro, di soffrire e di non esplodere nonostante tutto. Di conoscere la sofferenza, accarezzarla, capirla per far sì che gli altri non la subiscano. Nessuno si è accorto di quello che mi era accaduto in questi anni. Per alcuni, forse, ho sbagliato a non dire nulla e, vedendola col senno di poi, molto probabilmente è stato così, però, in quel momento per me era la sola ed unica cosa più giusta da fare. Non aspetto che qualcuno mi capisca, adesso direi sicuramente ad una persona vittima di bullismo di farsi aiutare, di parlarne, ma la ragazza che ero un tempo ha preferito agire diversamente perché aveva paura e non sapeva cosa fare e per fortuna ce l’ha fatta nonostante tutto, riuscendo a trovare in se stessa la forza e il coraggio per affrontare e superare qualsiasi cosa.
Ho capito che le persone vanno chiamate con il loro nome: quel gruppetto era formato da bulli, quelle parole sono state pronunciate da dei bulli, le mie sofferenze sono state causate dai bulli. Per questo con più forza ho cercato di aiutare chiunque ne avesse bisogno da quel momento in poi, anche durante il mio percorso universitario, però, non volevo che nessuno si avvicinasse a me. Non volevo più sentirmi come allora. Non volevo mostrare le mie debolezze a nessuno. L’amicizia non faceva per me, non più. Io aiutavo gli altri ma nessuno doveva essere mio amico: era questo che avevo in mente quando ho varcato le porte del campus universitario. Ma si sa, il destino è imprevedibile e ha preferito rimescolare le carte in tavola per darmi quell’opportunità che lui stesso, all’inizio, mi aveva tolto.
Ho conosciuto persone che con pazienza hanno voluto abbattere i muri che avevo costruito intorno alla mia crisalide e quel bruco, racchiuso in quel bozzolo, provava paura e felicità al tempo stesso. Paura per ciò che sarebbe accaduto ma era felice perché per la prima volta qualcuno voleva conoscerlo realmente. Per la prima volta non si sentiva giudicato e preso in giro. Finalmente era in grado di vedere il mondo a colori e di capire che era meraviglioso. Voleva uscire da quella crisalide che lo intrappolava, non aveva più paura. Si stava affacciando, rinascendo, per la prima volta alla vita. Divenne farfalla. Sono diventata farfalla.
Dopo quell’esperienza sono maturata tanto anche se, ancora oggi, convivo con le conseguenze di ciò che mi è accaduto: attacchi d’ansia, calo di autostima, mancanza di fiducia… ma sto imparando a non farmi risucchiare da queste paure quando ritornano per poter respirare con più forza ed energia di prima. Questo è stato il mio piccolo segreto che mi sono portata dentro senza che nessuno lo scoprisse, forse, è questo il motivo per cui ho deciso di scriverlo: volevo condividerlo con qualcuno ma volevo far anche sapere alla me stessa di adesso quanto sia stata forte in passato.
Ragazzi, ragazze siate gentili, sempre. Aiutate gli altri nei limiti delle vostre possibilità, non fateli soffrire e date il giusto peso e valore alle parole perché possono uccidere per davvero. Ricordate che siete perfetti così come siete. Le vostre imperfezioni vi rendono unici, vi rendono diversi, vi rendono speciali. Le persone avranno sempre da ridire su qualsiasi cosa voi facciate, tanto vale la pena farle parlare senza, però, ascoltare quei rumori che sono silenziosi perché escono dalla bocca di persone che non vi vogliono bene e che non tengono a voi. Tuttavia, ci saranno persone che vi accetteranno per come siete… C’è chi riesce a trovarle subito, chi ci mette un po’ più di tempo e chi, invece, li ha già lì, accanto a sé, dalla nascita ma ci saranno, non temete, non sarete mai soli perché come scrisse una ragazza tanto tempo fa su un foglio di carta “un giorno tutto questo passerà. Non smettere mai di crederci!”
Wanda Cioffi